OLASZ KONYHA BLOG Newsletter ottobre 2024 I.Dall'antico “Pranzo” alla nostra “Cena”: una storia di nomi e orari che si trasformano
Dall'antico “Pranzo” alla nostra “Cena”: una storia di nomi e orari che si trasformano Le denominazioni dei pasti nella storia, i colori nella gastronomia e la Settimana della Cucina Italiana in arrivo
I nomi dei pasti – colazione, pranzo, cena – non si riferiscono solo a momenti della giornata, ma raccontano anche le abitudini sociali di epoche diverse e il modo di vivere di ciascuna classe sociale. La loro storia è molto più dinamica di quanto si pensi, tra trasformazioni linguistiche, spostamenti d’orario e influenze culturali che, nel tempo, hanno fatto slittare anche il significato dei termini.
In origine, il pasto principale della giornata era “il pranzo”, consumato intorno a mezzogiorno e seguito da un pasto serale più leggero, chiamato “cena”. Questo schema si rifaceva ai pasti dell’antica Roma: il “ientaculum” del mattino, il “prandium” di mezzogiorno e la “coena” serale. I Romani, però, davano maggiore importanza al pasto serale.
Nel Medioevo, con l'affermarsi dell'economia feudale ed il cambiamento del ritmo della giornata, l’orario del pasto principale si spostò a mezzogiorno.
Negli ultimi due secoli e mezzo, questo orario è cambiato nuovamente, e con esso si sono modificati anche i nomi dei pasti. I nobili, non vincolati dall’obbligo di lavorare, si alzavano al mattino sempre più tardi.
Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, il "pranzo tardivo" divenne un simbolo di status tra le classi dominanti, distinguendole dalle classi inferiori. Coloro che erano oberati dal lavoro, contadini o operai, si alzavano presto e avevano bisogno di un pasto sostanzioso intorno a mezzogiorno, seguito da una cena più leggera alla sera.
Con l’arrivo dell’Ottocento, tuttavia, tutto cambiò ancora una volta: nelle classi aristocratiche e borghesi europee, si iniziò a considerare il “pranzare tardi” un segno di prestigio. La nobiltà, libera dal lavoro manuale, si svegliava tardi e faceva colazione verso mezzogiorno, posticipando così il pranzo (o “diner”) a metà pomeriggio. Questo fenomeno nacque in Inghilterra, ma si diffuse rapidamente in Francia e poi in Italia.
A Parigi, già nel 1782, Carlo Goldoni raccontava la difficoltà di invitare gli amici a pranzo dopo le due del pomeriggio, mentre a metà Ottocento la nobiltà francese si sedeva a tavola alle sette o otto di sera, ispirata dallo stile di vita inglese. Anche gli uffici francesi si adattarono: per permettere un pranzo serale posticipato, ridussero l’orario di lavoro pomeridiano.
In Italia, Alessandro Manzoni accoglieva i suoi ospiti per cena alle cinque, un orario già tardo per l’epoca, e dopo l’Unità d’Italia il pranzo si stabilì alle 18, spingendosi spesso verso le 19, in linea con le abitudini francesi.
Nasce il "Déjeuner à la fourchette"
L’evoluzione degli orari dei pasti portò a una nuova esigenza: un pasto leggero a metà giornata per spezzare la fame. In Francia, nacque così il “déjeuner à la fourchette”, una sorta di colazione sostanziosa servita tra le 13 e le 14, con pietanze da gustare velocemente, tanto che anche i nobili cominciarono a organizzare ricevimenti per questo nuovo tipo di pasto. L’idea si diffuse anche in Inghilterra, cambiando persino gli orari delle sessioni parlamentari.
Ma cosa resta della “Cena”?
La cena serale, ormai quasi un semplice spuntino, era riservata ai più nottambuli che, dopo i balli, potevano gustare una “cena al cucchiaio” per placare la fame senza interrompere le danze. Ma, con questi cambiamenti, anche i termini iniziarono a perdere il loro significato originale.
Il termine “pranzo” (o “diner” in Francia) era ormai associato al pasto principale della sera, mentre la colazione di metà giornata divenne il “déjeuner” o “lunch”. Questo portò, in Francia, alla creazione del “petit déjeuner” (colazione leggera del mattino), mentre in Italia e in Inghilterra rimasero rispettivamente “prima colazione” e “breakfast”.
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Come si presentano le denominazioni dei pasti nell’ Italia d’oggi?
In diverse zone settentrionali, il termine “prima colazione” viene ancora utilizzato per indicare il primo pasto del giorno, mentre nel Sud prevale semplicemente la “colazione.” Questo contrasto è radicato nelle abitudini regionali, ma anche nei modelli di lavoro e di vita locale.
Al Nord, soprattutto nelle strutture alberghiere, “prima colazione” sottolinea l’inizio della giornata, talvolta accompagnata da una colazione più abbondante, soprattutto nelle zone alpine e appenniniche.
Al Centro e Sud Italia, invece, è più comune riferirsi semplicemente a “colazione,” riservando il termine “pranzo” per il pasto di mezzogiorno, spesso seguito dalla tradizionale “merenda” e dalla “cena” serale.
Inoltre, in alcune città del Nord, come Milano e Torino, il pranzo tende a essere più leggero e breve, seguendo uno stile di vita cittadino e lavorativo, mentre nelle città del Sud, come Napoli e Palermo, il pranzo continua a rappresentare un momento di convivialità, con pasti più ricchi e lunghi.
II. Sapore a prima vista: l’impatto visivo del cibo
Il colore in cucina parla una lingua tutta sua
Ci è capitato a tutti: la sola vista di un piatto appetitoso ci fa venire l’acquolina in bocca. Questo accade perché il nostro cervello, vedendo un cibo che conosciamo e ci piace, attiva i nervi autonomi e le ghiandole salivari. In pratica, il sapore e l’aspetto di quel cibo sono già impressi nella nostra memoria sensoriale, un vero e proprio "palato mentale" che risiede nella corteccia cerebrale e si attiva grazie ai neurotrasmettitori. Un esempio noto è la cioccolata, che stimola la produzione di serotonina, il neurotrasmettitore del benessere.
Il ruolo dei colori nella neurogastronomia
Guardare un piatto può essere più di una semplice esperienza visiva: stimola il nostro cervello e risveglia una vera e propria "memoria del gusto." Quando osserviamo un cibo, i nostri sensi reagiscono attraverso percorsi neurologici che attivano le ghiandole salivari, quasi anticipando il sapore grazie alla vista. Alcuni alimenti, come la cioccolata, inducono il rilascio di neurotrasmettitori come la serotonina, regalando una sensazione di benessere. Questa interazione tra sensi e gusto ha dato vita alla neurogastronomia, una disciplina che esplora i complessi legami tra percezione e gusto, dimostrando come l’aspetto del cibo stimoli emozioni diverse a seconda della nostra memoria personale, della cultura e della personalità. Non è solo l’aroma o la forma a fare la differenza, ma anche il colore: il primo sguardo a un piatto può evocare sensazioni simili a quelle che proviamo osservando un’opera d’arte, poiché sia i piatti sia le opere suscitano reazioni uniche in ciascuno di noi.
Alcune note sui colori e la percezione sensoriale
Nel 1672, Isaac Newton, facendo passare un raggio di luce attraverso un prisma, scoprì che la luce bianca contiene sette colori principali: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto. Tra questi, rosso, giallo e blu sono i colori primari. Unendoli, si ottengono i colori secondari: arancione, verde e viola. Inoltre, i colori complementari come giallo e viola, rosso e verde, blu e arancione si bilanciano visivamente, creando armonie cromatiche.
La percezione del colore è soggettiva e può influenzare altri sensi. Ad esempio, un colore caldo come il rosso può farci percepire calore, mentre il blu ci appare più “freddo”. Inoltre, il colore può evocare ricordi e sensazioni che influenzano il nostro benessere. Chi ha vissuto una brutta esperienza con un cibo probabilmente proverà un certo disagio rivedendolo.
Il linguaggio del colore e il suo utilizzo
In cucina come nell’arte, il colore è uno strumento per suscitare emozioni e attrarre. In pubblicità, ad esempio, il verde rappresenta la genuinità e la freschezza, ideale per promuovere prodotti bio, mentre il giallo suggerisce energia e positività. In cucina, la scelta del colore è altrettanto strategica. Una base colorata, come una salsa o una purea, può dare risalto ai cibi sovrapposti. Pensiamo agli gnocchi viola serviti su una fonduta di zafferano: il contrasto di colore rende il piatto ancora più attraente.
Il tono e la brillantezza del colore sono altrettanto importanti. La perdita di colore durante la cottura, ad esempio nelle verdure, è dovuta alla degradazione della clorofilla, il pigmento verde. La tecnica della sbianchitura – immergendo le verdure in acqua bollente e poi in acqua ghiacciata – permette di mantenere la brillantezza e le proprietà nutrizionali.
Colori naturali in cucina
Zafferano, curcuma e molti altri ingredienti offrono colori naturali stabili, già usati storicamente anche in pittura. Estrarre questi colori è semplice: possiamo frullare l’ingrediente o lasciarlo macerare in un liquido. La tecnica di disidratazione, come essiccare frutta e verdura nel forno, permette di ottenere polveri colorate che si possono poi utilizzare in cucina. Immaginate un risotto blu con estratto di mirtillo o rosso scuro grazie alla barbabietola.
Proprietà nutritive associate ai colori
Il colore di un alimento spesso rivela le sue proprietà benefiche. Molti vegetali, per esempio, sono antiossidanti grazie a vitamine e composti come carotenoidi e flavonoidi, che contrastano i radicali liberi e riducono lo stress ossidativo.
Rosso: Fragole, pomodori e barbabietola sono ricchi di licopene, un antiossidante che aiuta a ridurre il rischio di alcuni tumori.
Giallo/arancio: Peperoni, carote e limoni abbondano di vitamina C e carotene, essenziali per il sistema immunitario.
Verde: Spinaci e insalata contengono luteina, un carotenoide che protegge la vista.
Viola: Mirtilli e ribes forniscono antociani e carotenoidi, preziosi antiossidanti.
Bianco: Latte, aglio e cipolla contengono quercetina, utile come antinfiammatorio e per la salute del microcircolo.
L’armonia cromatica nel piatto
Nell'arte e nella cucina, il colore serve a comunicare e incantare, trasmettendo significati e sensazioni differenti. Così come i colori su una tela sono disposti per risaltare a vicenda, anche i colori dei piatti possono essere scelti e combinati per intensificarne l’attrattiva visiva. Nella cucina moderna, l’uso dei colori non si limita alla decorazione: sfruttando ingredienti naturali come zafferano, curcuma, barbabietola o mirtilli, si possono creare piatti non solo saporiti, ma anche visivamente accattivanti. Ad esempio, un risotto colorato con zafferano o barbabietola assume una nota di eleganza e unicità, evocando un'esperienza più completa. Gli chef, come i pittori, selezionano le sfumature per arricchire l’esperienza gustativa, trasformando ogni piatto in una piccola opera d’arte, dove i colori raccontano storie di sapori e nutrimento.
III. La IX Settimana della Cucina Italiana nel Mondo in arrivo
I dettagli sugli eventi della Settimana della Gastronomia Italiana saranno comunicati via e-mail ai soci del Club I Love Italian Cuisine.
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Gli articoli sopra sono un'elaborazione libera dei materiali pubblicati nel numero di ottobre 2024 della rivista Civiltà della Tavola.
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